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domenica 16 novembre 2014

L'amore, se posso dire come la penso, è una malattia della dignità. Agisce per picchi e inabissamenti. Compra e vende. La riconosci subito. Ha dei sintomi - come dire, - dei sintomi che non ti sbagli.
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E poi c'è l'ultimo sintomo, il peggiore, dove la dignità è talmente bistrattata che la possibilità di risalire è proprio meglio che te la levi dalla testa, ed è la dipendenza dall'umore di qualcun altro.
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 Questo dipendere dall'umore di un altro, questo fatto che se lei è gentile tu riesci ad arrivare vivo alla fine della giornata e se invece ti tratta con indifferenza sei un uomo distrutto e non riesci a combinare niente e accumuli lavoro e altri debiti di vario genere è veramente una porcheria, un'ingominia di cui non ci si dovrebbe mai macchiare per nessuna ragione al mondo.
E la faccenda più penosa è che a questo punto l'amore è bello che finito (cosa vuoi amare, con una dignità così ridotta), eppure tu è ancora d'amore che parli. Sei diventato l'equivalente di un fan di Elvis, un disadattato incapace di vivere nel presente che nel vestirsi, nel parlare, nel sentire musica, nel leggere, nello scrivere, perfino nell'andare a letto con qualcuno cerca una cosa che ha smesso di esistere, tutto qui.
Diego De Silva, Non avevo capito niente [Capitolo: Quello che direbbe Malinconico sulla più diffusa delle malattie autoimmuni, se mai qualcuno glielo chiedesse (cosa probabile)]

Si sa, non sono il tipo a cui piacciono le storie d'amore: a parte quelle scritte o girate magistralmente (ma l'interesse in quei casi è per la genialità dello scrittore, del regista o dello sceneggiatore, non per le storie), trovo l'idea di amore romantico limitante e banale, come chiudersi in una casa di venti metri quadrati, mentre hai tutto il mondo a disposizione. Non è il discorso della volpe con l'uva, ne è prova il fatto che quando mi ci sono trovata ho finito per annoiarmi e odiarmi e tornare sui miei passi, rifiutando anche stabilità sentimentali per rimanere nel mondo (dell'ultima volta che l'ho fatto, parlerò in seguito, forse). 
Ci sono incontri però che un po' ti fanno ricredere e pensare: niente male questo amore. Un esempio, la mia coinquilina è fidanzata con un ragazzo senegalese, conosciuto a Valencia, mentre lei era lì per uno stage. Quando lei è tornata in Italia, per un po' sono stati separati, fino a quando lui non ha deciso di raggiungerla. In un paese straniero, del quale lui non conosceva la lingua, in una regione che non offre grandi opportunità lavorative per chiunque, figuriamoci per un africano. Si è trasferito da una città fiorente e viva della Spagna, in un paesino pressocché immobile del Sud Italia. Per amore. Lavora dove può, in campagna soprattutto, senza mai lamentarsi, nemmeno quando lei è dovuta venire a Milano e quindi lasciarlo da solo. Stringe i denti, si impegna e non dice bah, dei due è quello con più ottimismo e speranze e pazienza. Mi era già simpatico, pur non avendolo conosciuto di persona, poi la mia coinquilina mi ha letto una sua (di lui) lettera e mi si è aperto proprio il cuore. Nelle frasi scritte in un italiano zoppicante (di persona che l'ha imparato solo ascoltandolo) ha riversato una tenerezza tale da riscattare il mondo da decine e decine di disonesti e cinici di ogni genere, razza e classe sociale.

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